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Europa
Prigionieri di Maastricht: ma che fare per competere?
di CLAUDIO F. FAVA
I parametri di Maastricht non sono la Bibbia.
Sono utilissimi valori di riferimento studiati a tavolino quando l’Europa di oggi non esisteva, o meglio quando ne esisteva un’altra più giovane e, soprattutto, dotata di minore esperienza, con una vita vissuta più breve; e che era, pertanto, orientata più a fissare le regole e a stipulare i trattati sulla base di ideali che ad immaginare gli scenari futuri, allora sconosciuti e impensati.
Ma adesso di esperienza l’Europa ne ha accumulata abbastanza, tantopiù che il suo Governo, rappresentato dalla Commissione europea, ha dovuto svolgere spesso un ruolo di parafulmine, in mancanza di accordi politici, tra i Governi nazionali degli Stati membri su una serie di problemi anche di eccezionale gravità: come gli avvenimenti internazionali conseguenti all’attentato dell’11 Settembre 2001 alle Torri gemelli di New York, le due guerre intraprese dagli Stati Uniti in Afghanistan e in Irak, l’ingresso nell’Unione europea di altri 10 Paesi dell’Europa dell’Est, il trasferimento, agli uffici centrali di governo europeo, dei difetti propri delle pubbliche amministrazioni nazionali, a noi peraltro ben noti.
Inizialmente, tra la fine del secolo passato e l’inizio del nuovo, i governanti europei avevano ritenuto necessario stringere un patto di stabilità per evitare squilibri sull’euro derivanti dal crescere del debito pubblico dei singoli Paesi dell’Unione monetaria; e avevano fissato per quest’ultimo un parametro massimo di riferimento oltre il quale non deve aumentare, ritenendo pericoloso renderlo “volatile a comando”, ossia modificabile per esigenze contingenti dei singoli Paesi. In base a tale accordo il debito pubblico non deve superare il 60 per cento del prodotto interno lordo, e non può aumentare, ogni anno, di una percentuale superiore al 3 per cento dello stesso prodotto interno lordo. Questo vincolo però, insieme ad altri tabù e “isole sacre”, ha via via reso più difficile lo sviluppo economico in un periodo di globalizzazione dei mercati, di modifica degli ecosistemi, di influenze trasversali della WTO – l’Organizzazione mondiale del commercio -, di calo dei consumi e di recessione negli 8 Paesi più industrializzati, in particolare in quelli che non hanno investito abbastanza nella ricerca per cui le loro industrie non sono in grado di riconvertirsi in breve tempo.
A questo punto è sorta la necessità – e non aggiungo né “purtroppo” né “per fortuna”, visto che può discutersene apertamente – di fare una serie di considerazioni e di porre alcuni interrogativi.
Ad esempio questi: perché nel conteggio delle spese di un Paese, ovvero nel calcolo del rapporto tra il prodotto interno lordo e il debito pubblico, le spese per l’assistenza sanitaria vanno a gravare sulla quota di aumento del 3 percento? Perché questo avviene anche per le risorse finanziarie destinate alla ricerca che in tal modo vengono considerate spese e non più propriamente investimenti? Perché le spese per la realizzazione di infrastrutture per servizi, destinate a migliorare la qualità della vita dei cittadini e a contribuire allo sviluppo del Paese, e che sono per di più ammortizzabili in 35 anni, figurano nella percentuale di riferimento del debito pubblico? A mio avviso, quando furono effettuati i calcoli – che hanno comportato un grande sforzo e notevoli sacrifici per le popolazioni interessate – e si raggiunse l’intesa sul 3 per cento, nei Paesi sviluppati e quindi industrializzati, questo parametro era costituito dal 2,2% di spese correnti, incluse le pensioni, e dallo 0,8-1 per cento di elementi variabili di gestione della macchina produttiva ed infrastrutturale dello Stato. Oggi, anche a causa del non ancora sviluppato volano economico costituito dal Project Financing ossia dalla partecipazione di capitali privati alla realizzazione di opere pubbliche - pilastro su cui si basa la legge obiettivo del Ministro Pietro Lunardi per l’esecuzione di infrastrutture, siano esse “calde” ovvero senza intervento dello Stato, “fredde” con grande intervento dello Stato, o “tiepide”, con capitali pubblici e privati -, non si può far rientrare in quel 3 per cento tutto ciò che crea sviluppo a lungo termine, tutto ciò che incide significativamente sul cambiamento, gradito o non gradito condiviso o non condiviso, che comunque, in qualsiasi epoca, ogni Governo deve affrontare.
Personalmente ritengo che dai prossimi parametri debba escludere un forfait pari allo 0,5 per cento relativo alle spese per la cosiddetta “capitalizzazione sviluppo”, o eliminare dalla percentuale un 50 per cento delle spese pubbliche destinate alle infrastrutture, alla ricerca, alla sanità e alla solidarietà. Non è solo un problema economico, ma anche di civiltà e di consolidamento della salute di un Paese. Inoltre, se almeno il 50 per cento delle opere pubbliche fossero realizzate con il Project Financing e affidate in concessione ai privati costruttori e gestori, questi affronterebbero più volentieri gli investimenti vedendosi garantiti profitti futuri. Ma sino a quando i Ministeri dell’Economia, delle Infrastrutture, della Sanità e delle Attività Produttive non faciliteranno e garantiranno l’affidamento dei progetti di piccole dimensioni a forme di partneriato tra i settori Pubblico e Privato, non vi potrà essere una cultura dello sviluppo e le risorse finanziarie continueranno a restare depositate improduttivamente in banca. |
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