SPECCHIO
ECONOMICO


   
 
 
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Concorrenza.
Battere la Cina imponendole di migliorare le condizioni dei lavoratori

di CLAUDIO F. FAVA

Dobbiamo assolutamente trovare una soluzione che impedisca l’irrompere di una crisi occupazionale senza precedenti nel mondo. La Cina, con le proprie armate di lavoratori sottoqualificati, super-utilizzati, mal considerati, impedisce una sana concorrenza fra prodotti omogenei. E questo in assenza di idee da parte della World Trade Organization, l’organizzazione mondiale del commercio. Se fosse venuto con me due mesi fa a Guangzhou nella provincia di Canton, in occasione della terza joint venture da me realizzata con aziende della Repubblica Popolare Cinese in venti anni di relazioni professionali e industriali, il direttore generale della W.T.O., Supachai Panitchpakdi, non avrebbe detto ciò che, dallo scranno più significativo del commercio mondiale, ha sostenuto in favore del pieno diritto all’export della Cina.
Essere direttore generale della W.T.O., il massimo organo che detta regole che possono arrecare successi ai produttori e danni alle popolazioni a bassa produttività, rappresenta un grande riconoscimento. Riconoscimento del buon senso, della capacità di analisi, non obbligatoriamente dell’intuizione ma certamente del sentimento di giustizia. Ma la pentola delle irregolarità istituzionalizzate dalla W.T.O. si è scoperchiata quando è cessato il contingentamento dell’importazione dalla Cina della multi-fibra, cioè del tessuto industriale; una misura durata 10 anni e che doveva costituire un preavviso per i Paesi occidentali, ai quali invece quel periodo non è bastato per capire che cosa avrebbero veramente dovuto fare per arginare il crollo della competitività causato dai prezzi di esportazione dei prodotti delle aziende cinesi.
Anche senza entrare nel novero dei prodotti di marchio che creano nervosismi e danni alle marche high quality - da Bulgari a Fendi o Armani in Italia -, i prodotti cinesi possono ora entrare nei canali di vendita della grande distribuzione europei, e quindi non solo nei mercatini, a prezzi del 30, 40 o 50 per cento in meno del loro costo di produzione in Italia. La W.T.O., che ha addirittura un tribunale proprio, inappellabile sembra, potrebbe dare ragione alla Cina nel caso in cui i produttori cinesi si sentissero discriminati in quanto a libertà di mercato. Ora nulla mi si può imputare in quanto a pensiero liberista ma nel rispetto delle regole sociali, etiche e di chiarezza, cioè quelle regole che evitano di innescare pericolosi focolai che corrono, ogni tanto, il rischio di diventare rivoluzionari. Occorre stare attenti a dove può portare questa deriva.
Se Supachai fosse venuto con me alla ricerca di un produttore di tavoli da stiro da esportare in Francia per conto di una casa italiana, avrebbe notato aspetti senz’altro utili, oltre ad ammirare la grandezza controversa di un Paese con tante fatiscenze e qualche isola felice rappresentata da poche aziende internazionali organizzate, e comunque ancora inferiori al numero degli alberghi a 5 stelle presenti.
Ad esempio i fili elettrici scoperti appesi alle cassette di derivazione, il tubo arrugginito dell’acqua nella parete per i dipendenti, i bagni senza veli, le abitazioni spesso gratuite o meglio assegnate in luogo della Cassa integrazione guadagni a lavoratori che bighellonano, magari arando un po’, in attesa di essere chiamati e regolarmente pagati cinque dollari al giorno. Supachai avrebbe capito, insomma, che non c’è parità. E a Cancun in Messico, nel 2003, l’ultimo semifallimentare summit pieno di ministri, scorte e accompagnatori muniti di tutti i comforts - naturalmente portati dai rispettivi Paesi -, avrebbe dovuto lanciare un allarme: «Attenti, non c’è parità!». E forse stare zitto oggi.
Facendo due conti semplici, non solo per gli addetti ai lavori, possiamo considerare che i costi del progresso, cioè quelli di progettazione e sviluppo, gravano sulle aziende per un 10 per cento circa. E sappiamo che non basta; perché da Luca di Montezemolo a Fausto Bertinotti, tutti, tranne alcuni passati ministri distratti, vorrebbero incentrare il rilancio della produttività su questa voce di bilancio. Naturalmente un prodotto e soprattutto un produttore che si rispetti devono rendere conto agli ispettori inviati dall’ex Enpi oggi Asl, dal Nas, dalla Guardia di Finanza, dalla Regione, dal Comune e in alcuni casi Provincia, ad accertare il rispetto di una serie di leggi: tutti obblighi che hanno avvantaggiato il mondo del lavoro in Italia e in Europa. Per gli oneri sociali aggiungiamo mediamente un costo per le aziende pari a un altro 20 per cento. E non abbiamo ancora preso un martello o un’impastatrice in mano. Come possiamo competere così?
In un recente convegno all’Università San Pio V dedicato alla responsabilità sociale (addirittura all’etica che deve regolare, nelle scelte, la coscienza degli amministratori, segno del progresso dell’umanità), e al quale hanno dato un importante contributo personalità quali Victor Ukmar, Lamberto Dini, Vincenzo De Bustis, Luigi Abete, Francesco Zaccaria e altri, è emersa la discrasia: come sostenere il lusso della responsabilità sociale nell’attività produttiva in presenza della «cinesizzazione», ovvero della globalizzazione targata Cina?
È qui che la W.T.O. deve assumere le proprie responsabilità, deve creare una formula sociale di parificazione, collaborare con la Banca Mondiale e con l’Onu. Non si può risolvere un problema con risvolti così globali senza una visione che preluda ad accordi al di là di quelli meramente economici. La W.T.O. deve istituire non una tassa o un dazio, strumenti facilmente fraintendibili, ma una quota sul prezzo del prodotto che vada a favore dei lavoratori cinesi, della loro assistenza e qualità di vita, affinché comincino ad assaporare e fare proprie le conquiste sociali che lavoratori, imprenditori e governanti hanno assicurato alla società europea negli scorsi 50 anni.
Un gruppo di esperti in Economia e Diritto dell’economia ha con me elaborato una proposta basata sull’assoggettamento all’Iva dei prodotti esportati dalla Cina nei Paesi europei; il gettito dovrebbe affluire in una Fondazione internazionale con sede in quel Paese. Le somme, pagate direttamente dai produttori cinesi a un’istituzione governativa, dovrebbero essere destinate ad adeguare la sicurezza, la qualità del lavoro, l’assistenza sanitaria per i lavoratori di aziende che esportano in Europa.
In questo modo i prodotti cinesi costerebbero di più, per cui da un lato diminuirebbe l’eccessivo gap competitivo esistente oggi con quelli europei, dall’altro il sistema sociale dell’apparato produttivo cinese migliorerebbe a beneficio della qualità della vita dei cinesi. Solo collaborando a far crescere il loro mercato, a farlo diventare più conveniente anche per i produttori europei non ancora maturi per affrontare la globalizzazione - W.T.O. permettendo -, può ridursi lo squilibrio tra i Paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo.

   
  Giugno 2005
Pag. 46