SPECCHIO
ECONOMICO


   
 
 
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Concorrenza.

Il Mezzogiorno potrebbe battere
la Cina con il Commissario

di CLAUDIO F. FAVA

Sotto gli occhi di tutti la crisi economica che, più stemperata in Europa, sta avviluppando, in maniera più accentuata, il nostro Paese. L’Italia sembra avvolgersi in una spirale viziosa che, coinvolgendo imprese, famiglie e Mezzogiorno, si avvia verso una recessione che le attuali condizioni internazionali fanno presumere lunga e di non facile soluzione. Questa situazione presuppone una serie di cure la cui applicazione è quasi impossibile in considerazione dei loro effetti indesiderati.
La Confindustria lamenta il crollo della competitività attribuendone la colpa, oltre alla mancanza di investimenti nell’innovazione, anche e soprattutto alla crescita eccessiva del costo del lavoro che, rapportato alla produttività, è tra i più alti al mondo. Ma ridurre o congelare l’attuale costo del lavoro implicherebbe un’ulteriore riduzione dei consumi, già molto bassi, impedendo l’effetto moltiplicativo sul prodotto interno. Relativamente al Mezzogiorno è fin troppo chiaro che la sua endemica debolezza è ulteriormente acuita in un periodo in cui alle difficoltà interne si aggiungono quelle di ordine internazionale connesse ai risvolti negativi della tanto ricercata e decantata globalizzazione. In una situazione del genere il Governo è intervenuto con un ritardo inspiegabile, sino all’ultimo decreto i cui effetti sono pari a quelli di un «decotto». Gli interventi programmati e previsti dalla Finanziaria 2005 sembrano, infatti, labili e del tutto inadeguati alla cura da cavallo di cui il Paese avrebbe bisogno.
Come se non bastasse, si esalta la riduzione dell’Irap; ma c’è da chiedersi come un imprenditore potrebbe essere invogliato ad investire puntando sulla riduzione d’imposta che avrà effetto solo nel prossimo anno. D’altra parte, considerato che è la minimpresa a rappresentare la cellula produttiva in maggiore espansione, quali stimoli potrebbe essa avere in previsione di un risparmio fiscale di qualche migliaio di euro?
In tutto questo una legge che ha prodotto una certa attesa nell’imprenditorialità almeno nella fase iniziale, come la 488 del 1992, è stata prima depauperata e successivamente, a partire dal 2006, significativamente ridimensionata.
A volere essere pragmatici poi, considerati i risultati raggiunti, tutto l’impianto di incentivazioni sembra aver fallito lo scopo.
Cosa fare? La risposta in teoria è semplice: lo sviluppo del prodotto interno potrebbe derivare dall’incremento della produzione meridionale. Ma l’industria del Nord potrebbe reggere l’impatto di una doppia concorrenza, nazionale e internazionale, qualora il Mezzogiorno dovesse diventare una macchina produttiva di tipo cinese? Sicuramente no, a meno che non siano le industrie dell’Europa centrale, incluse quelle del Nord Italia, ad investire direttamente nel Meridione. Ma dove esattamente?
La strada più immediata potrebbe essere riservare tutte le risorse destinate all’incentivazione a una colossale opera di sviluppo turistico del Mezzogiorno, inteso come formidabile magnete che calamiti tutte le fasce del turismo mondiale; un Sud che dal litorale di Formia arrivi a quello di Pescara diventando un concentrato di tante Rimini, Montecarlo e isole greche, secondo gusti e possibilità del turista. Di fronte a un massiccio afflusso turistico si svilupperebbe una ragnatela di piccole e medie imprese di supporto all’industria turistica principale, con effetti benefici per le zone più interne.
Una ristrutturazione così radicale non avrebbe luogo se non attraverso una capillare programmazione di tutti gli interventi; per fare ciò occorrerebbe la nomina di un commissario, visto che non esiste un Ministero per il Mezzogiorno. Poiché un piano del genere deve servire a sviluppare quest’area al di fuori di interessi partitici, la struttura pubblica dovrebbe essere coadiuvata da imprenditori e da manager, anche stranieri, escludendo ogni clientelismo politico. L’intervento dello Stato diventerebbe indispensabile per la costruzione di tutte quelle opere pubbliche, strade, autostrade, aeroporti e ponte sullo Stretto di Messina che, in un’ottica del genere potrebbero trovare il giusto senso.
In presenza di tale sviluppo la riduzione della pressione fiscale sarebbe attuabile senza la necessità di ricercare fonti alternative di copertura. Oggi il problema dell’evasione fiscale e contributiva, almeno per il Mezzogiorno, più che un arricchimento indebito costituisce per molti una necessità per restare sul mercato. C’è da aggiungere che buona parte dei fondi concessi in conto capitale alle imprese meridionali non è stata destinata allo scopo originario. Conosciamo i preventivi gonfiati per chiedere finanziamenti e gli impegni, disattesi, delle imprese di incrementi occupazionali.
Non giovano, in una situazione di recessione, eventuali sgravi contributivi finalizzati all’incremento occupazionale: perché assumere e aumentare l’offerta di prodotti, se la domanda flette? Ciò considerato, per evitare sprechi, dispersioni, furbizie, errori, un Commissario assumerebbe un ruolo fondamentale: non per stabilire priorità e graduatorie, ma solo per esprimere un giudizio di merito sui progetti conformi al piano regionale. Le Unioni industriali provinciali dovrebbero mettere a disposizione gratuitamente delle imprese uno staff di esperti con il compito di evidenziare periodicamente i loro punti deboli e per suggerire un’adeguata formazione professionale.
Inoltre occorrerebbe costituire, con capitali esclusivamente apportati dalle Regioni, un Istituto di credito operante esclusivamente nell’area meridionale e la cui funzione dovrebbe essere svincolata dalle logiche di profitto che condizionano l’impresa rendendole praticamente inaccessibile il ricorso al credito. Contro tutto questo c’è un ostacolo che sembrerebbe insormontabile: la presenza di mafia e camorra, che si combattono con l’occupazione giovanile. Ma se realmente si volesse lo sviluppo del Sud, quanto tempo occorrerebbe per eliminarle? Quello necessario per dimezzare la disoccupazione giovanile. E ciò è possibile solo differenziando temporaneamente, a titolo di incentivo, il costo del lavoro nel Sud.
Se oggi in Italia per le aziende in crisi esiste la mobilità che concede un periodo transitorio ai lavoratori che si presume qualificati, perché non favorire l’impiego dei giovani riducendo del 20 per cento la loro retribuzione e esentandola dal pagamento degli oneri contributivi per i primi cinque anni? Quante aziende europee o del Nord-Italia preferirebbero combattere le importazioni dalla Cina con una politica di incremento occupazionale a costo ridotto e con accesso regolamentato nel Sud? Notevoli sarebbero i vantaggi per il prodotto interno nazionale. È assurdo far arricchire gli imprenditori cinesi e ridurre i redditi dei lavoratori italiani che già non spendono, non si sposano, non creano sviluppo ma diventano sempre più ostaggio degli introiti illeciti o perlomeno irregolari.

   
  Luglio Agosto 2005
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