SPECCHIO
ECONOMICO


   
 
 
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Concorrenza.

Mediterraneo, un mercato alternativo
alla Cina.

di CLAUDIO F. FAVA

Spesso mi sono trovato ad analizzare problemi e proporre soluzioni per contribuire alla miglior comprensione dei fattori economici e sociali internazionali, macroeconomie, che incidono sulla vita di tutti i giorni nelle famiglie e nelle nostre bellissime province italiane.
Gli ultimi avvenimenti della follia imperscrutabile di una parte dell’umanità che provocano stragi di innocenti, non possono passare inosservati sul piano economico congiunturale mondiale, così come non lo è stato l’11 Settembre del 2001.
E’ chiaro che occorre fondare le leggi economiche dei mostri sacri dell’economia, da Adamo Smith a John Maynard Keyes, da Jean-Baptiste Say a Franco Modigliani, con l’ingrediente della reazione che il terrorismo genera sulla qualità dei consumi, mentre l’Occidente vive l’attacco della quantità a basso prezzo dei prodotti cinesi.
Nonostante questo occorre essere propositivi, non perdere la fiducia e non dimenticare che il progresso è sempre stato lastricato di sacrifici di tutti i generi, ma ha sempre dato più di quanto abbia preso, soprattutto in presenza di forme di governo democratiche.
Nessuno è così incosciente da ipotizzare che il problema dell’esportazione cinese si possa risolvere con misure isolate, Paese per Paese. Se anche il WTO, l’Organizzazione Mondiale per il Commercio, vacilla davanti a questa tendenza, è evidente che va messo a punto un insieme di misure democratiche , ma rispettose degli equilibri dei lavoratori sia cinesi che di quelli italiani.
Nessuno pensa, altresì che senza una coraggiosa politica degli industriali italiani all’estero i prodotti italiani riescano a mantenere la stessa percentuale di quote di mercato a livello mondiale.
È inevitabile che occorre andare dove il mercato cresce.
Per quanto riguarda l’Italia, in quanto penisola, ha una posizione geopolitica ed economica di grande potenzialità e deve confrontarsi con un pianeta diviso in tre blocchi.
Da una parte il blocco dei Paesi occidentali, storicamente votato alla produzione ed all’esportazione nei mercati anche più marginali; dall’altra il blocco dei Paesi cosiddetti emergenti che, stando ai risultati da essi raggiunti in questi ultimi anni, sembrerebbero già abbondantemente emersi. Fra i due blocchi si pone l’Africa, quasi nella sua interezza, bisognosa di tutto e che sempre in maniera più determinata cerca il necessario spazio per la propria sopravvivenza. Tre blocchi, quindi, ognuno dei quali, per crescere, non può fare a meno di invadere spazi altrui. E difatti, negli ultimi anni la quota del prodotto mondiale dei paesi industrializzati, storicamente sempre in crescita, è calata dal 71 al 69%, mentre quella dei Paesi in via di sviluppo è aumentata dal 16 al 24%. Ancora più impressionanti sono i dati relativi ai tassi di sviluppo comparati fra i due blocchi; crescita zero per l’Italia nel 2005 e di poco più dell’1% nel resto dell’Unione Europea, mentre la Cina cresce ad un ritmo del 9% l’anno, la Corea del Sud del 7,8%, l’Egitto, la Malaysia e la Thailandia circa del 6,6%. E che la tendenza non solo non si attenua, ma sembra assumere un carattere sempre più strutturale e irreversibile è confermato dalle ultime previsioni del Fondo Monetario Internazionale che fissano, anche per i prossimi anni, una crescita dal 6 al 9% per l’India, la Russia e la Cina, mentre gli Stati Uniti potranno arrivare ad un 3-4%; peggio l’Europa che, nella migliore delle ipotesi, si attesterà intorno al 2%. Ma se la Cina sembra essere la “locomotiva” dell’economia attuale, non bisogna sottovalutare il fatto che dietro di essa ci sono agguerriti vagoni rappresentati da Paesi che finora la politica internazionale ha tenuto ai margini dei mercati mondiali. Paesi, come quelli sopra accennati che, con le loro immense riserve di lavoro, possono produrre a costi estremamente bassi mettendo in crisi un’economia occidentale appesantita da un rapporto sempre più insostenibile tra produzione e costo del lavoro. Ma ciò che maggiormente deve preoccupare l’Occidente è la rapida conquista di capacità da parte dei nuovi arrivati. In Italia già un’azienda su quattro già soffre la concorrenza cinese; specialmente il Made in Italy sembra pagare la presunzione di aver ritenuto eterne alcune rendite di posizione. Il 2004 la bilancia dei pagamenti ha registrato un deficit di un miliardi e mezzo di euro, mentre, nei confronti della Cina, la differenza fra importazioni ed esportazioni è addirittura del 10% .
Come rompere, quindi, l’assedio dei paesi emergenti? Una soluzione potrebbe essere quella che attualmente sembra la più praticata: andare a produrre proprio dove i costi del lavoro sono minori, magari stringendo alleanze locali e, comunque, con proprie linee produttive e propri sistemi. Un’altra soluzione, applicabile specialmente al nostro Paese e forse più naturale, potrebbe essere quella di sfruttare una sorta di “rendita geografica”. Il bacino del Mediterraneo si estende su una superficie di oltre 2 milioni e mezzo di chilometri quadrati ed abbraccia una quantità di Stati che, dalla Francia al Mar Nero presentano matrici culturali, storiche ed economiche estremamente varie. Proprio tali differenze, rese opportunamente complementari tra loro, potrebbero rappresentare la chiave di volta per contrastare la sfida proveniente da Oriente. Se, come sembra innegabile, il fulcro su cui ruota la produttività dei paesi emergenti è il basso costo del lavoro, c’è da considerare che anche i Paesi del bacino Mediterraneo potrebbe godere, nel loro complesso, di un tale vantaggio. A ben guardare, infatti, se consideriamo tali Paesi come un unico continente, ci si accorge che nella parte a nord in esso esistono più tecnologie, competenze, capacità e managerialità, mentre in quella a sud, composta dai Paesi africani che si affacciano sul Mediterraneo, vive una massa lavoratrice che, pur in presenza di bassi costi dei salari, potrebbe migliorare sensibilmente la propria situazione economica.
Quindi avrebbe un effetto positivo investire nel Sud del Mediterraneo, com’è nei programmi della Banca del Mediterraneo dato che il costo di produzione dei Paesi che si affacciano è inferiore a quello vigente nei Paesi al Nord. E se da un lato diminuisce il divario con il costo di produzione dei beni prodotti in Cina, dall’altro la maggiore conoscenza e vicinanza con i popoli arabi sarà certamente utile alle future generazioni europee.
Il blocco mediterraneo, pertanto, potrebbe assumere, in tale ottica, la fisionomia di una Cina per così dire “nostrana” capace non solo di difendere le proprie posizioni ma addirittura di invadere sia i mercati tradizionali sia quelli dell’Est. Un Mediterraneo, quindi, costituito e inteso non come immensa distesa di acqua, ma come collante di Stati, economia e culture.

 

   
  Settembre 2005
Pag. 51