SPECCHIO
ECONOMICO


   
 
 
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Internazionalizzare

Investire e produrre in Cina
per battere la concorrenza.

di CLAUDIO F. FAVA

Per vincere la battaglia della piccola e media impresa occorre una strategia unitaria. Queste aziende rappresentano il 90 per cento di quelle italiane e raccolgono il 70 per cento della forza lavoro del nostro Paese, ma costituiscono il più debole anello della catena di espansione verso i mercati internazionali e non potranno mai essere determinanti senza un forte sostegno associativo che ne favorisca l’inserimento in essi. La piccola e media impresa italiana subisce di riflesso la crisi di una grande azienda nazionale decadente, provinciale, spesso debole, miope ed impreparata. Anziché trainare le esportazioni con lo sfruttamento di un sistema di attacco verso i mercati esteri alleandosi con banche italiane internazionali e con un sistema promozionale governativo, la grande azienda nazionale attende sempre più spesso un acquirente, un investitore straniero un esperto in globalizzazione di mercato, impresa e sviluppo.
Oggi le grandi e medie banche milanesi percepiscono i sintomi del cambiamento prima di altri operatori. Non hanno lavoro con l’industria come negli anni ‘70 e ’90, ma fanno affari con i clienti immobiliaristi, con le acquisizioni, le razionalizzazioni di patrimoni immobiliari, i servizi legati al reddito da immobili.
In Italia bisogna avere il coraggio di constatare che si sta perdendo la cultura industriale, sostituita da quella finanziaria, speculative e dei servizi ex-pubblici, cioè un mercato obbligatoriamente interno, quindi ristretto e condizionato dal rapporto tra il settore pubblico e quello privato, spesso politico e non di mercato.
Oltre ai sacrosanti dati del prodotto interno, dell’inflazione, del debito pubblico che si leggono in tutti i quotidiani, altri sono utili per esprimere riflessioni significative e costruttive: sono i dati allo spostamento dell’occupazione da un settore produttivo ad un altro, quelli relativi alla composizione della spesa delle famiglie; queste ad esempio oggi, rispetto a dieci anni fa subiscono una maggiore spesa mensile, pari a un centinaio di euro, per l’ “accesso”, cioè telefonini, canoni tv, Sky, internet ecc.: tutti costi che hanno contribuito alla riduzione dei consumi di beni primari e secondari prodotti dall’apparato imprenditoriale italiano.
Come vanno letti i dati statistici del contributo del 60 per cento dato all’occupazione dal settore delle costruzioni edili, sul totale degli occupati nell’industria?
Come va letto l’incremento del 40 per cento fornito delle piccole e medie imprese dal 1995 ad oggi in Italia? Come una fuga dalla grande industria dovuta a necessità o come un cambiamento della cultura produttiva del Paese?
In un mondo dove su 6 miliardi e 100 milioni di persone, solo 900 milioni di esse raggiungono un reddito pro-capite di 28 mila euro l’anno, mentre Cina, India e Brasile che contano 2 miliardi 800 milioni di abitanti, vivono con il 10 per cento del reddito annuo dei Paesi OECD (l’Organizzazione europea per la cooperazione e lo sviluppo economico), quali sono gli strumenti innanzitutto sociali e poi economici necessari per diffondere i principi per una convivenza di pace e progresso?
Non può esistere una piccola e media impresa se non v’è una grande impresa; non vi può essere una sopravvivenza industriale se non si affrontano adeguatamente i problemi dell’internazionalizzazione.
Conseguentemente ne deriva che non c’è internazionalizzazione senza la presenza di grandi aziende italiane all’estero che trainano le economie delle piccole e medie aziende di qualità; e per questo occorre che la politica unisca i fattori di successo, i punti di forza, la prospettiva di sviluppo del grande patrimonio culturale industriale italiano.
Banca, impresa e mercato debbono raccordarsi nei Paesi stranieri in sviluppo, ed assecondare il trasferimento dell’occupazione, che è in calo nelle grandi industrie italiane così come quelle europee, favorendo con i distretti commerciali ed artigianali realizzati in Italia l’innovazione e l’internazionalizzazione organizzativa delle piccole e medie imprese italiane.
Per chiarire questo concetto esaminiamo due esempi tra tutti, innanzitutto quello della Finmeccanica, azienda leader italiana che occupa circa 9 mila persone in Inghilterra. Questo investimento è stato effettuato nell’ottica di conqistare una maggiore quota di mercato elicotteristica mondiale. Questa politica ha consentito a questa holding di acquisire una importante commessa negli USA mentre altre ne ha in fase di definizione nel Sud Africa come in Australia.
Per Finmeccanica lavorano forse più di 1000 sub-fornitori italiani altamente specializzati, costituiti tutti da piccole e medie imprese che hanno investito nella ricerca.
Il secondo esempio potrebbe essere costituito dalla realizzazione di un grande centro di marca italiana a Pechino, che favorirebbe la produzione di centinaia di migliaia di capi italiani da parte di piccole e medie aziende italiane nella Repubblica Popolare Cinese. Un investimento del genere legato al made in Italy offrirebbe alla moda italiana di acquisire una quota consistente del mercato in quel Paese, senza perdere l’originalità dei brevetti difesi e registrati sul posto. Inoltre si ridurrebbero i costi di produzione anche dei prodotti distribuiti in Italia, risultato utile in assoluto per combattere la concorrenza dei prodotti a basso costo e di bassa qualità per contribuire a conservare la progettualità italiana.
Questa è la strada sulla quale il mondo politico si deve confrontare per trovare una soluzione accettata dalle associazioni di categorie, concentrare le strategie e mostrare un Paese all’attacco e non in un mortificante stagno di piagnistei.

   
  Febbraio 2006
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