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ECONOMIA
Affermare un sistema italiano
al posto
di un sistema Italia.
di CLAUDIO F. FAVA
Trasferire all’estero le aziende con prudenza, modificare la struttura produttiva italiana con conseguenze positive per il prodotto interno, valorizzare il patrimonio italiano inteso come prodotti ma anche come servizi, è la strada per usare le grandi capacità imprenditoriali italiane per uno sviluppo più moderno e adeguato nell’ambito del cambiamento in atto dell’economia mondiale. Esperto in project financing, o finanza di progetto, consistente nella partecipazione finanziaria dei privati alla realizzazione di opere pubbliche, il prof. Claudio F. Fava ha dibattuto in molti scritti e interventi una serie di problemi economici di grandissima attualità, proponendo soluzioni spesso originali.
Oltreché dei problemi collegati alla finanza di progetto, ha prospettato l’istituzione di un’Autorità per il Ponte sullo Stretto di Messina, la costituzione di una struttura bancaria internazionale per lo sviluppo del Mediterraneo, l’introduzione di un «bollino blu» per le aziende cinesi che desiderino vendere i loro prodotti in Europa, l’individuazione di risorse del Sud-Italia per lo sviluppo del Mediterraneo, per l’imprenditoria giovanile e per l’emersione del lavoro nero attraverso l’estensione della Cassa integrazione guadagni all’artigianato e alle piccole e medie imprese fino a 14 dipendenti, la costituzione del Ministero per l’Energia alternativa, l’internazionalizzazione delle piccole e medie imprese. Temi che ha trattato talvolta in maniera provocatoria. In questa intervista il prof. Claudio F. Fava approfondisce alcuni aspetti.
Domanda. Esiste un collegamento tra le sue varie analisi?
Risposta. Il mondo sta cambiando e non per un solo motivo, per un solo fattore. Il panorama delle analisi è ampio, ma nello stesso tempo richiede specializzazione: questo è l’aspetto prevalente di questi temi. Il mio esame intende diffondere in qualche modo la specializzazione nella fiducia, costituire quello stimolo che porta i protagonisti delle categorie a confrontarsi con i loro problemi quotidiani, pratici e operativi. Lo schema che uso è sempre lo stesso: analisi critica del sistema, visione strategica, individuazione di opportunità compatibili, indicazione di un piano operativo.
D. Quale futuro si prepara al nostro sistema produttivo nazionale?
R. Alla prima domanda mi è facile rispondere prendendo a prestito quanto affermato recentemente dal prof. Allen Sinai in occasione di un convegno sullo Stato sociale cui hanno partecipato gli economisti Michael Spencer, Frank Cespedes, Jeremy Rifkin, Edward C. Prescott, Dennis J. Snower e Michael J. Spendolini. Trovandomi in un contesto così qualificato a parlare delle conseguenze dell’allargamento dell’Europa a 25, colsi l’occasione per chiedere quale sarebbe stato il giusto equilibrio per un futuro dell’Italia. Mi fu risposto: l’Olanda. Ossia? L’Olanda, nel senso del «sistema olandese». Notoriamente senza risorse energetiche e naturali fatta eccezione per le industrie turistiche, alimentari e manifatturiere, secondo loro gli italiani avrebbero dovuto mettere meglio a frutto la propria capacità tecnica, organizzativa e creativa che li caratterizza investendo all’estero per penetrare nei mercati stranieri. Quindi produrre «where the market is», cioè dove è il mercato, in Cina, India, Sudamerica, acquisendo quote di mercato nei Paesi emergenti con prodotti made in Italy, high tech e tecnologicamente innovativi.
D. Può fare qualche esempio?
R. Purtroppo ve ne sono pochi, ma è ciò che ha fatto ad esempio Franz Senfter. Infatti l’industriale dello speck di San Candido ha aperto uno stabilimento in Cina, vi ha inviato il figlio che, aiutato dall’esperienza del salumificio di famiglia, ha inventato un salsicciotto monodose per il «pranzo veloce» che si sta diffondendo nella ristorazione per uffici a Shangai, ripetendo il successo ottenuto dall’azienda Pizza Quick dell’emigrante italiano Gino Paolucci detto Giaino, negli Stati Uniti degli anni 80, azienda poi venduta a un miliardo 200 milioni di dollari nel 1990. Inoltre, contrariamente a tutte le critiche, la holding del lusso di Matteo Cordero di Montezemolo ha fatto bene a creare in Cina joint venture e produrre a costi accettabili per il mercato cinese prodotti di qualità, stile e fascino europeo. Non dimentichiamo poi che se la Benetton, tra gli altri marchi, realizza in Cina prodotti in stile made in Italy, non solo promuove l’immagine dell’Italia, non solo acquisisce una quota di mercato nella fascia alta dell’abbigliamento casual cinese, ma consente alle famiglie italiane di pagare di meno una gamma di articoli di abbigliamento esattamente uguali a quelli prodotti in Italia.
D. Quindi, in pratica, bisogna trasferire le aziende all’estero?
R. Il trasferimento è una necessità per chi possiede la tecnologia ma deve affrontare alti costi di produzione. Per la ristrutturazione del comparto produttivo in Italia invece, secondo il mio punto di vista il discorso è diverso, ma complementare. Occorre pianificare meglio i tre piloni di sviluppo che sono nel nostro patrimonio: turismo, prodotti alimentari e Mezzogiorno. Cioè quei tesori che rappresentano la vera riserva aurea del nostro Paese.
D. Come può svolgere l’Italia un ruolo da operatore internazionale nel nuovo panorama geopolitico mondiale e diventare più competitiva?
R. Occorre una risposta più tecnica, perché la soluzione per diventare operatore internazionale è più semplice ma più articolata. Infatti bisogna che l’Italia costituisca un sistema a livello mondiale, il che è comprensibile, ma farlo esige un’armonizzazione rivoluzionaria. Intanto occorre scegliere una politica di sviluppo interna e una internazionale. La prima va dedicata ai consumatori e agli investitori esteri nel nostro Paese, al turismo, alle città d’arte e quindi alla cultura, al Mezzogiorno che per la sua arretratezza industriale diventa oggi una grande opportunità per valorizzare sia il territorio che la posizione di centralità del Mediterraneo, crocevia tra il Medio Oriente, l’Africa e il Centro-Europa. La seconda va dedicata all’esperienza italiana di organizzazione produttiva basata su grandi, piccole e medie imprese, assistite nell’espansione dal settore pubblico e prima o poi anche dalle banche italiane all’estero. Holdings come la Philips, l’Unilever, la Gillette appartengono a Paesi più piccoli dell’Italia e danno lavoro a migliaia di lavoratori in centinaia di stabilimenti nel mondo. In questo modo occupano quote di mercato stabili nei Paesi esteri che consentono di sostenere, con i conseguenti profitti, la ricerca e quindi il know how sviluppato e custodito nella casa madre. Quanti sono i loro colleghi italiani? Pochi «eroi», male assistiti.
D. Lei ha proposto la costituzione del Ministero per il Mezzogiorno dedicato al Sud e dell’Energia alternativa, della Banca del Mediterraneo, obiettivi tendenti a migliorare la capacità produttiva. Che vantaggio c’è nel produrre all’estero?
R. Duplice. Il primo consiste nell’acquisire quote nei nuovi mercati con una produzione dai costi inferiori; il secondo nell’offrire a minor costo anche ai consumatori italiani i prodotti realizzati all’estero, partecipando, e non combattendo «da sicuri perdenti», alla globalizzazione. Questa politica però va pilotata in modo che nei prossimi 10 anni si trasferisca all’estero il 20 per cento circa della produzione manifatturiera italiana più costosa, rendendo il Paese più competitivo. La minore occupazione nella grande industria potrà essere bilanciata dalla maggiore occupazione determinata dallo sviluppo della piccola e media impresa, dal terziario, dalla ricerca, dal terzo settore ormai sempre più necessario per far fronte alle esigenze di una popolazione in crescente invecchiamento.
D. Questa politica non incute timore a imprenditori e lavoratori non pronti al cambiamento?
R. Non si può assistere al mondo che cambia sperando che resti immutato quanto ci circonda e ci fa comodo. Per affermare il nuovo modello di sviluppo che potrebbe definirsi il «sistema italiano», tutti devono partecipare al processo di trasformazione: banche, istituzioni, ma soprattutto Università che, per prime, dovrebbero preparare l’accesso a questo nuovo ambiente internazionale che si presenta a tutte le imprese italiane, grandi, medie e piccole. Il tipo di emigrazione verificatosi intorno al 1900 dovrà essere sostituito dall’emigrazione mirata, conseguente alla libera circolazione dell’impresa che è cultura, sviluppo e ricchezza. Sta a noi non perderne le radici, non farci abbagliare né da un conservatorismo superato né da un progressismo miope. La scarsezza delle risorse, come avviene per l’energia, domina il mercato nel bene e nel male. Dobbiamo scegliere attentamente quali di esse usare e quali comprare nei Paesi che offrono più opportunità.
D. Non è detto che sia un male fabbricare all’estero prodotti italiani che costano meno e richiedono un minor consumo di energia. O dobbiamo continuare a far crescere la dipendenza energetica per produrre a volte merci che non hanno mercato perché costano troppo?
R. Produrre un solo chilo di alluminio richiede 6 kilowatt di energia elettrica. Come potrebbe importare i pani di alluminio, trasformarli con quello che costa l’energia in Italia, riesportarli per installarli ed essere competitiva un’azienda italiana che vinca un appalto per realizzare un centro commerciale in Svezia o in Cina? Sappiamo quanto costa in meno l’energia in Svezia o in Cina? Molti parlano di economia, ma pochi hanno unito allo studio l’esperienza diretta nelle fabbriche, nella vera realtà produttiva comune in tutto il mondo. Alcuni miei colleghi non hanno mai varcato la soglia di una «fabbrichetta» italiana.
D. Quale sarebbe la formula per un futuro più stabile per lo sfruttamento delle risorse produttive dell’Italia?
R. Prendere a prestito la strategia militare, valutare le possibilità di successo in base alla conoscenza del territorio e dei propri punti di forza. Chi conosce meglio degli italiani il continente mediterraneo e la capacità dei nostri lavoratori di affermarsi all’estero? Occorre quindi seguire l’indirizzo pro-mediterraneo della politica estera italiana e centuplicare le iniziative tra l’Italia e i Paesi frontalieri, dal Marocco all’Egitto, da Israele e dalla Palestina, alla Turchia, sino ai Balcani. In parallelo occorre incentivare, attraverso politiche internazionali, la triangolazione «industria-banca-ricerca» per creare imprese estere a capitale italiano nei mercati emergenti. Infine offrire al turismo proveniente dall’estero il godimento di ciò che abbiamo in Italia e che non ha bisogno di essere acquistato da altri Paesi, come la cultura, le bellezze naturali e l’apprezzatissima famiglia di prodotti agroindustriali ed enogastronomici tipici della piccola e media azienda. Va sostituito in pratica un «nuovo sistema italiano» internazionale a un «vecchio sistema Italia» nazionale. |
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