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SPECCHIO ECONOMICO |
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GLOBALIZZAZIONE. di CLAUDIO F. FAVA Intesa come processo di trasformazione delle singole capacità economiche e sociali degli Stati in un’energia economica mondiale, la globalizzazione costituisce una grande opportunità per l’Italia; occorre però trovare gli strumenti adeguati per domarla: concreti passi in questa direzione sono la multirappresentatività nel project financing e le modifiche del codice degli appalti introdotte dal decreto Matteoli. E occorre diffondere una cultura, nell’umanità in continua evoluzione, che soddisfi le esigenze economiche e sociali e generi spinte produttive nell’organizzazione degli Stati. I prodromi della globalizzazione si manifestarono sin dagli anni 50 con la riforma delle tradizionali regole economiche. La linea di demarcazione tra il vecchio sistema ricco di geniali studi di economia e filosofia dello sviluppo e l’economia moderna si prospettò nel triennio 1945-1947: nel 1945, alla fine del secondo conflitto mondiale, con l’istituzione della Banca Mondiale; nel 1946 con la creazione del Fondo Monetario Internazionale; nel 1947 con il Gatt, l’accordo sul commercio internazionale. Dal 1950 al 2006 il volume dei beni prodotti dall’industria manifatturiera mondiale è aumentato di 60 volte; senza una regolamentazione sancita dagli istituti fondati pochi anni prima si sarebbe verificato il caos. Nonostante questo, si è ben lontani da un’armonizzazione delle regole sociali ed economiche che determini uno sfruttamento equilibrato delle risorse e la tutela del pianeta, in sintesi un progresso sostenibile. Quindi a politici, manager, finanzieri e industriali oggi è concessa l’opportunità di partecipare alla creazione di principi e regole che aiutino tutti i Paesi a produrre ricchezza e lavoro e a sviluppare una globalizzazione da ostile perché non si conosce, ad «amica» perché se ne comprendono le opportunità. Come la cultura che è dinamica, che non arriva mai a un risultato definitivo, che non conosce la parola «fine», così la globalizzazione è un oceano in perenne movimento la cui navigazione richiede applicazione, conoscenza e ricerca. La conoscenza necessaria per affrontare un processo planetario deve essere offerta dai Paesi ricchi a quelli emergenti per evitare aprioristiche opposizioni negative per tutti, con danni collaterali spesso superiori alle previsioni. Pertanto il primo punto da affrontare in un’ipotetica riunione di un ipotetico Consiglio di amministrazione del pianeta è: «Come realizzare uno sviluppo equilibrato». La risposta: approfondendo i cardini del progresso dell’era moderna, cioè l’informazione, la formazione, la ricerca e le infrastrutture. L’informazione oggi è diventata un coacervo impazzito di infrastrutture costituite da un lato da una serie di veicoli - stampa, tv, radio, internet -, dall’altro da una moltitudine di produttori di contenuti che inseguono il consenso a tutti i costi perché questo è misurato dai «contatti». In questa situazione occorrono uno slancio e un atto di coraggio da parte di tali produttori che, comunque, hanno bisogno di un aiuto fornito da regole globali comuni, che tengano conto di una vecchia legge economica: dato che la ricchezza si produce con lo spostamento nello spazio e nel tempo di un bene o di un servizio, se non è elevata la velocità dell’informazione altera il processo di produzione della ricchezza spostandolo da alcuni Paesi in altri; lo scambio svantaggia i Paesi poveri. Ecco perché anche l’informazione deve essere socialmente responsabile. Molto si spende in Italia per incentivare la produzione di energia rinnovabile tramite l’installazione di pannelli solari o di pale eoliche, ma nulla per l’apprendistato. Con le leggi finanziarie per il 2006, 2007 e 2008 gli incentivi stanziati per l’energia rinnovabile ammontano ad oltre 20 miliardi di euro, mentre nella formazione post-universitaria non si arriva a 20-30 milioni di euro l’anno. Come si fa a spacciare questa divergenza come un incentivo per l’economia sostenibile? Occorre provvedere prima che la globalizzazione renda l’Italia preda di altri Paesi: fra 5 anni i soli laureati cinesi supereranno i 200 milioni. Per quanto riguarda la ricerca sorgono altri interrogativi. Le grandi aziende sono organizzate, sanno dove e come investire, creano attività indotte svolte da una cordata di molte piccole e medie aziende. Ma come possono unirsi quelle indipendenti? In Italia il 97 per cento delle aziende ha meno di 5 dipendenti, crea il 50 per cento del prodotto interno e partecipa al 30 dell’export. Ma tranne in alcune virtuose imprese operanti in settori di nicchia tecnologica o di mercato, non si registrano spinte innovative verso una politica di ricerca e sviluppo. L’Istituto per il Commercio Estero e le Camere di Commercio sono costrette a restare pressoché inerti di fronte alla continua proliferazione di doppioni promotori delle esportazioni. Un grande aiuto è dato da internet; nel libro «L’era dell’accesso» Jeremy Rifkin attribuisce una grande importanza al mondo dell’informazione in quanto crea tendenze e cultura. Ma in un regime liberista la classe politica può concedere, alla ricerca di un certo settore, un incentivo di importo pari al costo del mancato sviluppo che, senza di esso, lo stesso settore registrerebbe nel decennio successivo. Occorrerebbe insomma spendere oggi per non avere problemi domani. E con la prospettiva di un pregiudizio futuro si potrà costringere la collettività ad affrontare un maggior onere. Per lo sviluppo delle infrastrutture le Autorità garanti di Comunicazioni, Energia, Lavori Pubblici, Concorrenza e Acqua - quest’ultima oggi in cerca di casa -, hanno una grande responsabilità. Senza infrastrutture il progresso del Paese è rallentato e solo le istituzioni europee possono accelerarne la realizzazione. Dopo un biennio di boicottaggio ideologico il project financing, uno dei pochi strumenti in grado di stimolare iniziative private o pubbliche, è di nuovo considerato fondamentale per la creazione delle infrastrutture. La globalizzazione può contare su esso, ma non basta. Occorre un punto di partenza che per l’Italia non può non essere costituito dal Mediterraneo, o meglio dai Paesi che vi si affacciano. In una sponda dello stesso mare abbonda l’energia, nell’altra ne viene consumata in eccesso; ed esistono problemi comuni come quelli dei porti, della sicurezza della navigazione e dei trasporti. Con concessioni garantite e durature potranno attirarsi investitori affidabili; il progresso ha bisogno di certezze, non di avventure imprenditoriali.
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Ottobre 2008 | |||||||||