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Rilanciare il made in Italy nelle energie rinnovabili
E’ ora di cambiare pagina, di effettuare nel mercato degli incentivi dell’energia rinnovabile quel cambio di marcia che consenta di aiutare i produttori nazionali di componenti di impianti di energia rinnovabile a rimettere in moto ricerca, investimenti e occupazione.

Dai distretti di ricerca potrebbe svilupparti un indotto produttivo in tutto il Paese
di Claudio F. Fava

ll progresso atteso dallo sviluppo delle energie rinnovabili in Italia è insufficiente a modificare la strategia energetica a breve, pertanto se ne parla e parlerà a lungo termine, con tutti i rischi del caso.
Il costo delle materie prime fossili è talmente volatile che terrorizza molto di più la paura del “raddoppio” del costo del petrolio che la tranquillità del suo “dimezzamento” sempre più irreale.
L’ingresso dell’Italia nel nucleare seppure pulito, seppure necessario, seppure di quarta generazione, seppure già utilizzato dall’Italia attraverso le partecipazioni estere di Enel e le tecnologie di nicchia di Ansaldo Nucleare è articolato, difficile ed a lungo termine. E manca ancora di un concreto coordinamento.
I vantaggi della bioenergia, che rappresentano ad esempio in Brasile il 20-30% del consumo da trazione, in Italia sono controversi in quanto i territori idonei a produrre culture di qualità, vengono sacrificati a favore di prodotti da combustione.
Inoltre, ne vale la pena, visto che il trend dei prodotti agricoli corre il rischio di fare la fine del trend dei prodotti petroliferi?
Si è vero. Oggi il Paese ha un piano energetico, dopo tanti anni, ma gli italiani non hanno una cultura energetica. Quindi non approfondiscono nel privato ciò che pretendono dal Pubblico.
Il risparmio energetico che pure è uno dei famosi tre “20” degli obiettivi di Kyoto, è in tasca a tutti, a casa di tutti, uomini, donne, bambini, artigiani, preti, suore, industriali, pubblica amministrazione, e non decolla.
Risparmio che varrebbe nella bilancia dei pagamenti oltre 15 miliardi di euro l’anno e sarebbe una bella boccata di ossigeno per la crisi che attanaglia l’Italia in questo periodo.
Dov’è dunque che bisogna cercare alleati per recuperare cultura, risolvere i problemi di competitività del mondo produttivo e delle tasche dei cittadini?
Nella ricerca, con ricadute nell’industria e quindi nell’occupazione.
Ecco cosa possono fare le Regioni: creare una rete tra università, aziende, pubblica amministrazione, impresa, know-how, sfidare il futuro dell’energia con la propria intelligenza ed ambizione, attraverso la conoscenza del proprio territorio locale.
La politica degli incentivi alle F.E.R. (Fonti di Energia Rinnovabile), gestita dal pur efficiente GSE (Gestore Servizi Elettrici), non con i soldi dello Stato, ricordiamocelo, ma delle bollette dei cittadini, può diventare più incisiva e favorire l’occupazione nell’industria italiana.
Non è più necessario continuare a premiare chi gestisce energia con i pannelli solari, le pale eoliche o le biomasse, i cui impianti o materie prime acquistate prevalentemente all’estero si sono dimostrati meno duraturi e quindi meno convenienti di quanto indicassero le specifiche tecniche dei disinvolti fornitori.
E’ ora di cambiare pagina, di effettuare nel mercato degli incentivi dell’energia rinnovabile quel business-change che consenta di aiutare i produttori nazionali di componenti di impianti di energia rinnovabile a rimettere in moto ricerca, investimenti ed occupazione.
Il Ministero delle Attività Produttive dovrebbe farsi promotore di incentivare gli utilizzatori all’acquisto degli impianti più efficienti e non quelli più economici.
Ciò sarebbe possibile spostando l’erogazione dell’incentivo gestito dal GSE a favore dell’acquisto dell’impianto ad energia rinnovabile a maggiore produttività e non a favore della gestione. In poche parole il beneficio dell’utilizzatore sarebbe quello dell’autoconsumo a costo zero del kilowattora o della sua vendita al prezzo di listino dell’energia elettrica stabilita dall’authority competente.
Tutto il vantaggio dell’immenso flusso di denaro garantito dal GSE quindi si sposterebbe a favore del fatturato industriale dei produttori prevalentemente italiani, perché nessuno più vorrebbe -non pagando nulla- acquistare il prodotto più economico, magari cinese, bensì il prodotto tecnicamente più valido. In questo modo anche le P.M.I. potrebbero cavalcare la globalizzazione con la collaborazione della ricerca con l’Università, con partners esteri, con le Regioni. Anche nell’energia rinnovabile quindi nascerebbero prodotti Made in Italy, dove per Made in Italy non si parli solo di vini, stoffe, scarpe, mobili e borse, ma di tecnologia, di congegni, know-how e procedimenti industriali che diventino leader nel mercato più grande del mondo, più in espansione del mondo, più strategico del mondo: l’energia.
Meglio fare mercato nella tecnologia che essere mercato della tecnologia.
Aiutiamo le PMI a creare quei distretti di ricerca che trasformino in “attrezzeria” per gli impianti dell’energia e del risparmio energetico, una parte del tessuto industriale del Paese.
In questo modo si potrà incrementare il contributo al PIL da parte del comparto industriale dell’energia rinnovabile, con la implicita ricaduta sull’occupazione. E se per fare ciò importeremo meno pannelli dalla Cina, pale dall’Olanda, diesel dalla Finlandia ed inverter dalla Russia, bene, vorrà dire che la globalizzazione, se affrontata professionalmente, darà anche soluzioni, non solo problemi.

 

   
  Febbraio 2010