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Glocalizzazione e innovazione
un indirizzo per competere
di CLAUDIO F. FAVA
Le risorse, sia umane che naturali o tecniche, negli ultimi 50 anni stanno assumendo nuove sembianze che incidono, in maniera diversa, sull’equilibrio della ricchezza tra le varie civiltà e si rispecchiano nelle prevalenti popolazioni dell’OCSE, Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, dei Paesi in via di sviluppo o BRIC - Brasile, Russia, India e Cina-, dei Paesi Mediorientali e dei Paesi poveri. E’ impossibile parlare di globalizzazione, o meglio seguire i nuovi equilibri della globalizzazione, senza essere consapevoli che la cultura di base necessaria per comprendere i problemi dello sviluppo deve cambiare rispetto al più recente passato. Deve infatti essere caratterizzata da capacità di analisi, visione strategica, coraggio e freddezza.
Chi opera nel mondo dell’impresa e dei mercati, deve fare un salto di qualità, deve avere qualcosa in più e non in meno, se non vuole accettare semplicemente quello che il destino o l’occasionalità gli propone.
Tra tante teorie necessarie, ma non sufficienti, c’è ancora la solita vecchia regola: chi ha voglia di migliorare la propria posizione, “fa e impara a fare meglio”.
Infatti, chi vuole rischiare una nuova attività va spesso avanti, e chi sa fare anche un piano industriale trova più facilmente risorse finanziarie, mentre chi conosce la fabbrica, il mondo produttivo reale fatto di uomini, situazioni, improvvisazione e soluzioni, riesce a comprendere meglio le questioni sociali vere, i problemi di famiglie e dei giovani che faticano per inserirsi.
“La globalizzazione non è altro che la conseguenza dell’espansione di alcuni mercati produttivi che, sgomitando, cercano di creare degli spazi nuovi sia di consumo sia di risorse a basso costo”. La definizione di “energia dei singoli mercati sociali ed economici verso un’energia economica globale”, veste a pennello la realtà emersa dal baratro in cui la mancanza di principi e di controlli e la superficialità hanno fatto cadere l’economia mondiale.
Senza controllo adeguati i mercati prima o poi flettono e gettano oltre il bordo della dignità milioni di persone e miliardi di euro di risorse. Il recente passato l’insegna. La riflessione nasce dai problemi finanziari di questi ultimi anni che hanno coinvolto i “tango bond” dell’Argentina, i risparmiatori della Parmalat, e i cosiddetti “ninja bond” della crisi della finanza immobiliare negli Stati Uniti. Le conseguenze sui risparmiatori e il panico diffusosi nel mondo bancario sono state enormi, ma il danno maggiore si è manifestato nel mondo dell’industria, soprattutto in Italia.
Fra i documenti che ho esaminato, ho trovato un interessante articolo di Robert Stickgold - professore associato di Psichiatria nel Beth Israel Deaconess Medical Center di Boston – ed inizialmente ho pensato che fosse fuori posto, un errore, intitolandosi “Come riavviare il cervello”, ma poi, ho capito che era invece un segnale ironico del destino.
Infatti, sarebbe bastato usare le regole già esistenti nel mondo della Finanza per evitare sconquassi, ma i cervelli di azionisti e manager senza freni, sperando in un miracolo risolutivo, hanno volutamente sottovalutato ciò che sarebbe successo.
Sarebbe proprio bastato, come dice Stickgold, riavviare il cervello, il buon senso, la razionalità. Ma ciò non è successo. La nostra macchina industriale di grandi, medie e piccole imprese è poderosa, ma si è fatta trovare impreparata, con un disegno di internazionalizzazione ancora incompleto, che comunque, può ancora essere realizzato. Se però prendiamo ad esempio gli USA, vediamo che nel settore industriale, ultimamente, hanno creato un enorme scambio e flusso di investimenti e tecnologie due pratiche, o meglio due energie: “glocalizzazione” e innovazione inversa , vediamo cosa significano.
Per glocalizzazione – brutto neologismo – s’intende il trasferimento di prodotti tecnologici dai Paesi ricchi ai Paesi emergenti, privilegiando l’ammortamento già imputato sui prodotti già distribuiti producendoli localmente per poi importarli. L’ innovazione inversa è invece lo sviluppo, organizzato da aziende ad alta tecnologia dei Paesi occidentali, di prodotti realizzati a “misura” dei mercati dei Paesi emergenti, per essere poi adattati ai Paesi ricchi, privilegiando il basso costo di sviluppo o di personalizzazione.
Storicamente la glocalizzazione nasce prima, e negli ultimi 20-30 anni è stata vincente: molti sono andati nei Paesi arretrati a produrre prodotti per i mercati ricchi. Ora, però, che i Paesi ex “arretrati” si stanno sviluppando con un prodotto interno a due cifre, anche se in maniera non sempre coordinata, l’innovazione inversa rappresenta un processo evolutivo a basso costo e a standardizzazione più profittevole, quindi vincente. Pertanto occorre che i produttori, anche italiani, con conoscenza tecnologica avanzata, vadano nei mercati emergenti per conquistare spazi e fare profitti da investire in ricerca nel proprio Paese d’origine.
L’analisi della Globalizzazione e la crisi del 2008-2009, lasciano un grande dubbio: dove erano i grandi studiosi, le grandi scuole econometriche, i gradi index-runner tanto seguiti? Era leggibile il dato da cigno nero, cioè un inaspettato declino, oppure era leggibile con certezza il fenomeno detto California Earthquake, cioè uno tzunami che si sa che prima o poi arriverà senz’altro?
Alcuni esperti industriali di pianificazione e cultura industriale europei si sono riuniti a Londra e hanno elencato quelle che, secondo il mondo produttivo, sono state le cause della crisi economica che ancora ci attanaglia: al primo posto la bolla del credito facile per ragioni speculative dei bancari di prima linea, motivati da commissioni e alta velocità dei ritorni; al secondo, l’abitudine ad operare con superficialità, tanto tutto si risolve; al terzo la maledetta caccia all’innovazione finanziaria avanzata, rischiosa ma generatrice di bonus e ricchezza per chi la inventa e li spinge ad immettere sul mercato prodotti ad alto rischio; al quarto posto il supporto della tecnologia al servizio della moltiplicazione di ricavi ipotetici.
Le conclusioni sono tre, semplici e crudeli e speriamo che vengano comunicate sempre più spesso e da varie fonti, soprattutto dalle Autorità: i managers che hanno cavalcato questa prateria di profitti non hanno mai rischiato personalmente, ma hanno solo super-guadagnato nel breve termine a discapito della qualità degli affari; è risultato immorale che l’azionista abbia sfruttato il potenziale profitto a discapito delle conseguenze sociali dei rischi; il mancato coordinamento degli organi di controllo ha consentito quanto accaduto.
Oggi purtroppo, a causa di questo tracollo di fiducia, l’OCSE e soprattutto gli italiani hanno messo l’orologio indietro di 10 anni dal punto di vista industriale e quindi dell’occupazione e del futuro dei giovani. Purtroppo ci siamo accorti di non essere competitivi con ricerca, formazione ed innovazione dei mercati. Almeno sappiamo qual’è la strada per recuperare e conquistare una presenza nei mercati in espansione: ricerca, formazione ed innovazione dei mercati. Non sarebbe il caso di istituire un “tavolo programmatico” che indichi come usare questi attrezzi da lavoro della globalizzazione? |
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